Intervista alla d.ssa Alice Marvaldi : riabilitazione e potenziamento dell’autonomia lungo l’arco di vita
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A partire da una prospettiva a più livelli che consideri la persona come dotata di capacità e risorse oltre che, in taluni casi, vulnerabilità e fragilità, vogliamo considerare in questo breve scambio di opinioni con la d.ssa Marvaldi (psicologa specialista in creazione e implementazione di progetti e strategie per il miglioramento della qualità della vita in fasce deboli) il trait d’union che lega metaforicamente l’intervento educativo, supportivo e riabilitativo in età precoce con quello proprio dell’età adulta e i suoi riverberi sul benessere del soggetto, delle famiglie e della rete sociale.
AI: Anzitutto ti ringrazio della tua presenza e disponibilità.
AM: Per me è un piacere avere la possibilità di scambiare opinioni a partire da una tematica che è, oltre che professionale, anche di mio interesse personale.
AI: Di cosa ti occupi in prevalenza? Di quali soggetti? Di quale fascia di età? Con quali strategie?
AM: Da diversi anni mi occupo di disabilità e in particolare della strutturazione ed implementazione di progetti che favoriscano l’acquisizione di autonomie personali. Ho iniziato occupandomi prevalentemente di disturbi dello spettro autistico e ad oggi lavoro in differenti realtà e a contatto con svariate tipologie di disabilità ( da quelle meramente cognitive a quelle che prevedono altresì elementi fisici e prassici). La fascia d’età di cui mi occupo va indicativamente dai 10 ai 19 anni. Le strategie da me utilizzate attingono prevalentemente da un approccio operativo di tipo cognitivo-comportamentale: si lavora parallelamente su differenti abilità ed aree , cercando però di seguire un percorso incrementale che parta dalle abilità di base (cura del sé e igiene personale, alimentazione, cura dei propri oggetti e spazi di vita)per poi arrivare ad acquisirne di secondo livello ( spostamenti autonomi, gestione del denaro, adattarsi al proprio contesto di vita “allargato” ovvero la città, i locali, i luoghi ricreativi ed un domani, il luogo di lavoro), tenendo conto delle differenze in base all’età ed alle caratteristiche dell’utente.
Le metodologie adoperate a tal fine riguardano la scomposizione di attività complesse in più sotto-obiettivi sequenziali ( task analysis), apprendimento cooperativo tra pari con differenti base-line di autonomia, modeling, fading e shaping. Si cerca inoltre di passare da un apprendimento di tipo osservativo/per imitazione ad un tipo di apprendimento situato ed agito, il più possibile guidato e sostenuto dall’operatore, almeno in un primo momento e via via attenuato,al fine di fornire al soggetto un apprendimento il più possibile pragmatico, privo di errori ma non per questo scevro da un intrinseco challegne con se stesso e le proprie capacità. Le strategie di cui sopra sono adatte per ogni tipologia di disabilità o utenza “ fragile”, con possibilità di adattamenti ad hoc in base alle risorse e ai deficit specifici del soggetto.
AI: Molto interessante! Ci dici di attingere prevalentemente al modello cognitivo-comportamentale per la sua evidente spendibilità nel campo educativo e riabilitativo : pensi che sia possibile anche creare interventi di matrice psicodinamica senza escludere una parte più pratica?
AM: Credo che la matrice psicodinamica mal si adatterebbe alla tipologia di utenza che ho menzionato, data la presenza di deficit cognitivi spesso severi. Tale commistione tra elementi pragmatici e psicodinamici potrebbe invece essere attuabile con adolescenti e adulti affetti da problematiche più francamente psichiche e/o psicologiche ( penso ad esempio alle comunità terapeutico-riabilitative o educative). Ritengo inoltre che potrebbe essere interessante aprire un terreno di dialogo tra questi due aspetti nel lavoro con le famiglie, coinvolgendole nella gestione dei figli ad un livello sì pragmatico che però consideri altresì i risvolti più profondi nei termini di senso del sé, autostima e senso di agentività del proprio figlio; inoltre sarebbe utile lavorare con i genitori sui loro propri vissuti di dipendenza e co-dipendenza dal figlio, sulla difficoltà nel percepire un cambiamento, per quanto positivo, nella propria immagine di sé come care-giver (passare dalla percezione di essere utili ed indispensabili, sostituendosi spesso al figlio, ad una percezione di sé stessi come mezzo per permettere al figlio una sana quanto faticosa emancipazione).
AI: Possiamo quindi ipotizzare che a differenti tipi di vulnerabilità o disagio corrisponda un differente approccio, anche a partire dalla teoria di riferimento. Hai citato il lavoro con i familiari, spesso appesantiti e caricati di responsabilità della patologia dei figli o dei parenti. Si parla spesso di caregiving informale e di quanto esso sia il reale tessuto dell’assistenza alle persone disabili in Italia : quali pensi possano essere gli esiti auspicabili di una presa in carico dell’intera famiglia piuttosto che del singolo?
AM: Credo sia estremamente importante coinvolgere la famiglia nel progetto riabilitativo del figlio “ fragile” proprio per non far perdere loro in maniera “repentina” un ruolo di accudimento e accompagnamento che é sì percepito come gravoso e spesso opprimente, ma al contempo “nutritivo” per la propria immagine di genitore e come possibile forma di “espiazione” e ” contenimento” dei vissuti di rabbia e colpa che spesso si accompagnano al vivere con un figlio fragile. E’ perciò utile dare alla famiglia sia momenti di sollievo e alleggerimento concreto ( appartamenti didattici per i ragazzi, uscite con operatori specializzati) sia di tipo emotivo-psicologico (eccessivo aggravio emotivo e responsabilizzazione nei confronti del figlio) ma anche fornire ai care-giver degli strumenti e delle strategie per continuare il lavoro in contesto domestico e quotidiano ( per favorire al contempo la generalizzazione degli apprendimenti nel soggetto) non delegittimandoli dal loro ruolo ma fornenogliene uno alternativo e positivamente connotato,evolutivo. Tutto ciò avrebbe poi una notevole ricaduta positiva sulle angosce del “ dopo di noi”.
AI: Hai parlato della quotidianità e del “dopo di noi”, ossia tutte le aspettative e prefigurazioni sulla vita del parente una volta che si trovi in condizioni di possibile solitudine. Pensi sia possibile, allo stato attuale, pianificare interventi che abbraccino tutto l’arco della vita, considerandone i bisogni specifici che ogni età porta con sé?
AM: Si, credo che un intervento che inizi precocemente e prosegua sistematicamente e su più livelli in una prospettiva life-span, adattandosi alle differenti esigenze legate all’età del soggetto ( penso ad esempio all’accompagnamento del disabile nel mondo del lavoro,una volta adulto) permetta una maggior persistenza delle competenze acquisite ed una riduzione (laddove possibile alla luce del quadro deficitario del paziente) o in alternativa un rallentamento nel processo di istituzionalizzazione ed accudimento meramente assistenziale del parente. Per alcune tipologie di disabilità è possibile pensare ad esempio a realtà abitative gruppali e semi-autonome, con un intervento misurato ma costante da parte di operatori esterni mentre per altre sarà indicata una soluzione abitativa di tipo maggiormente “ comunitario” con un intervento più massiccio da parte degli operatori.
AI: Per concludere, vorrei chiedere la tua opinione su quella che nei paesi anglosassoni è stata definita “community care”, ossia quella prospettiva assistenziale venutasi a creare nel momento della deistituzionalizzazione dei pazienti in precedenza affidati alle cure di strutture che ne consentivano in alcuni casi la permanenza vita natural durante. Pensi che in Italia il fenomeno deistituzionalizzante sia stato gestito correttamente? Quali potrebbero essere le idee più nuove su questa tematica? Ha senso un ritorno all’istituzionalizzazione come alcuni ipotizzano?
AM: Ritengo che il passaggio da un sistema assistenzialistico chiuso ad uno di supporto alla fragilità che investa l’intera comunità, sia auspicabile e di per sé positivo ma spesso si scontra con la difficoltà di far comunicare e cooperare le reti familiari e quelle socio-sanitarie. La de-istituzionalizzazione massiccia rischia di creare un’eccessivo aggravio sui caregivers informali a cui viene richiesto un sempre maggiore home-care, che spesso non sono in grado di sostenere da soli.
Purtroppo, nel nostro paese e non solo, al processo di de-istituzionalizzazione non è seguito un cambiamento nell’ottica psicologica del concetto di salute. Ancora oggi si tende ad intervenire sul problema in maniera tardiva e non preventiva; troppo spesso inoltre il soggetto fragile viene tuttora visto come ricevente passivo di cure e assistenza e non come soggetto da includere attivamente in un progetto di sviluppo delle proprie autonomie e competenze, facendo leva sui punti di forza e non solo su quelli di debolezza.
Credo che un ritorno all’istituzionalizzazione “alla vecchia maniera” intesa come mero luogo ove far alloggiare i pazienti, offrendo loro cure prettamente assistenziali, non sarebbe auspicabile. Credo invece che si debba sempre più muoversi verso forme alternative di istituzionalizzazione, realtà residenziali o semi-residenziali con operatori che facilitino e guidino il paziente, protagonista attivo ( per quanto possibile) del proprio percorso di vita. Ovviamente, per fare questo, il lavoro sulle autonomie personali di base deve iniziare molto precocemente nell’infanzia, in modo che il paziente adulto di domani abbia in sé un corpus di competenze su cui si è lavorato per tempo e nel tempo, che garantisca un minor aggravio sul sistema socio-sanitario e sugli operatori che dovrebbero poter lavorare con il paziente e non al suo posto. Penso, a tal proposito, ad un dialogo precoce con il sistema scolastico, in modo da fornire percorsi alternativi agli alunni disabili, che lavorino principalmente sul raggiungimento di obiettivi minimi e pragmatici, utili nella vita di ogni giorno. Dovrebbe essere sempre più favorita la nascita di appartamenti o realtà abitative gruppali in cui i pazienti possano svolgere una vita il più possibile ” normale”, dedicandosi ad occupazioni quotidiane e sperimentando una dimensione il più possibile abitativa.
AI: Grazie Alice per il tuo contributo. Mi sento di concludere dicendo che oggi e nel prossimo futuro, le competenze dello psicologo saranno sempre più agganciate al contesto di vita e alle risorse attivabili sia nella persona che intorno ad essa. Rimane forse un nodo ancora da sciogliere : quanto la nostra formazione ci aiuti nel lavoro di rete e di gruppo? È possibile uscire da una prospettiva individualistica per fornire un servizio migliore? Tu che ne pensi?
AM: Credo che, sempre di più, i percorsi formativi degli psicologi debbano avvicinarsi ad una concezione di lavoro progettuale, di gruppo ed interdisciplinare. Ritengo che collaborare con colleghi di orientamenti teorici, specializzazioni ed esperienze differenti sia quanto mai arricchente, in particolar modo per la stesura di progetti operativi come quelli ivi discussi, che riguardano l’intero arco di vita ed investono a più livelli l’intera vita del soggetto, il suo ambiente familiare ed il contesto socio-culturale in cui è inserito. In casi come questo, ad esempio, credo sarebbe utile che più professionisti si occupassero parallelamente dei differenti livelli: un’equipe di stampo psico-dinamico potrebbe occuparsi della presa in carico emotivo-affettiva del nucleo familiare, un equipe di psicologi esperti nell’implementazione di tecniche cognitivo-comportamentali potrebbe occuparsi della riabilitazione dei soggetti coinvolti avvalendosi altresì dell’aiuto di educatori specializzati e personale socio-sanitario.
Spero davvero che quest’utile e piacevole occasione di dialogo tra colleghi, possa dar luogo, in futuro, ad interessanti collaborazioni professionali. Ti ringrazio.
AI: Grazie a te!
INFO: la d.ssa Alice Marvaldi (Psicologa esperta in Disabilità ed Età Evolutiva), iscritta all’Albo degli Psicologi della Liguria (n° 2433), riceve su appuntamento in Vico Malatti 7D, a Genova.
Tel: 3473714720 Mail: marvaldialice@gmail.com
2 Comments
Ada Carmagnini
at 10:39 pmSono in accordo totale con quello che suggerisce la dott.Marvaldi per quanto riguarda la visione del futuro di un ragazzo con autismo,non istituzionalizzazione
ma piccole famiglie guidate,aiutate a crescere e con la partecipazione delle
famiglie.
Questo È possibile .Non è un wishfull thinking
Alice Marvaldi
at 12:30 pmGrazie del tuo sostegno Ada. É fondamentale che i genitori portino le loro esperienze positive a riguardo, così come é importante che possano sottolineare i bisogni e le reali difficoltà che si incontrano in percorsi di questo tipo. Contribuiamo tutti insieme a diffondere una visione modificabile ed incrementale della condizione del disabile ed un’ottica preventiva nei percorsi di intervento.