Fraintendimenti e incomprensioni : i miti da sfatare – parte seconda
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- “Una volta che avrò perso X chilogrammi di peso sarò finalmente felice..”
La perdita del peso – attraverso diete, allenamenti, prodotti coadiuvanti, interventi chirurgici – costituisce una tematica molto consistente all’interno della dimensione del benessere e dell’accettazione sociale. La pinguedine non è più vista come nei tempi in cui le risorse alimentari erano scarse e infrequenti, ossia come un segno di prestigio e ricchezza, bensì come uno stigma sempre evidente che testimonia la mancanza di volontà per la cura del proprio corpo, e che spesso si associa alla percezione di poca disciplina, di consumo indiscriminato di cibo ricco in calorie ma poco nutriente (il cosiddetto junk food, il cibo-spazzatura), di povertà socioeconomica (le classi sociali più svantaggiate sono anche quelle più frequentemente costituite da persone corpulente od obese, sebbene questo sia più evidente negli Stati Uniti e in Inghilterra per via delle differenti tradizioni alimentari), di marginalità sociale e di malattia (nel senso di patologia fisica già presente o incipiente).
Tralasciando per un attimo il più ampio discorso inerente a ciò che venga considerato grasso versus magro nella società contemporanea (i canoni di valutazione degli ultimi cinquanta anni, ad esempio, sono molto cambiati), penso sia utile verificare l’ipotesi per cui ad una perdita di peso si associ sempre un miglioramento del benessere psichico, in coerenza con la prospettiva che suggerisce che un allineamento delle fattezze corporee ai modelli estetici prevalenti sia un atto capace di aumentare l’autostima a causa di una maggiore accettazione sociale, un maggiore senso di adeguatezza nei confronti del proprio corpo, una migliore vita sociale, relazionale e finanche sessuale.
Alcuni dei dati a disposizione in letteratura indicano che nei soggetti obesi, una perdita di peso all’interno del contesto sperimentale (ossia con la consulenza e il supporto di specialisti e di ricercatori) produce un alleviamento dei sintomi depressivi (Fabricatore, Waden et al, 2011) anche in concomitanza con un intervento farmacologico ausiliario (Busch, Whited et al., 2013) costituito da sibutramina (un farmaco anoressizante che si assume per via orale). Questi risultati sono, ad esempio, in contrasto netto con quelli di ricerche precedenti, tra cui quelle di Albert Stunkard, che nel 1957 notò come i regimi dietetici fossero in grado di produrre viraggi depressivi nei soggetti obesi, o quelle recentissime dello studio PLoS-ONE (Jackson, Steptoe et al., 2014 ) che riesaminando i dati emersi dallo studio longitudinale sull’invecchiamento della popolazione inglese (ELSA) basato sulla valutazione biennale di soggetti con più di 50 anni di età in base a specifici parametri, hanno scoperto che i soggetti non clinicamente depressi che hanno perduto più del 5% di peso corporeo in quattro anni hanno avuto un miglioramento del rischio di ipertensione e dei livelli di trigliceridi, ma un peggioramento del tono dell’umore e del benessere psichico riferito (e questo tenuto conto di potenziali eventi di vita estranei alla perdita di peso). In aggiunta a questi risultati contrastanti, si deve menzionare la difficoltà delle persone che tentano di perdere peso in merito al mantenimento del peso forma raggiunto : non soltanto perdere il peso in primo luogo risulta molto difficile, ma a fronte di mancati benefici psicofisici è verosimile pensare che gli svantaggi da tollerare siano troppi, nei termini di restrizioni alimentari, regimi di allenamento sportivo, senso di fallimento in caso di temporanea deviazione dal programma dietetico. Peraltro, una massiccia perdita di peso produce effetti esteticamente sgradevoli sul corpo, che devono essere poi rettificati attraverso interventi chirurgici, aumentando la condizione di distress in cui la persona si trova ed esponendo a esborsi economici, periodi di disagio post-operatorio, eventuali errori tecnici del chirurgo, facilità di vanificare la forma raggiunta attraverso una trasgressione alimentare anche moderata. Può essere quindi realistico sostenere che i programmi di dimagrimento per i soggetti sovrappeso non dovrebbero puntare su aspettative di benessere psicologico come fattore motivante primario, dato che le condizioni psicopatologiche (sia acute che croniche) non sono che minimamente alleviate da una perdita di peso. Importante sarebbe invece valutare il rapporto con l’immagine corporea e l’autostima, mappando l’origine di un disagio che ha portato in molti casi ad un eccesso alimentare, e associando a valutazioni psicodiagnostiche una serie di interventi multiprofessionali evidence based (basati su evidenze scientifiche).
IN BREVE : sia in soggetti depressi che non depressi, una notevole perdita di peso può costituire un vantaggio per l’umore ma anche un aggravio. Ricerche recenti, in contrapposizione ad alcune degli anni passati, indicano che negli studi longitudinali il miglioramento dei parametri di rischio per la salute si associa anche ad un peggioramento del tono dell’umore e del benessere percepito. Importante ricordare di come il dimagrimento non sia intrinsecamente antidepressivo, e di quanto sia utile associare ad interventi propriamente dietetici (alimentari, di allenamento fisico, di supporto farmacologico…) quelli di anamnesi della storia del paziente, in particolar modo il rapporto con il proprio corpo, l’autostima, le aspettative, le risorse sociali e strumentali accessibili.
Busch A.M., Whited M.C., Appelhans B.M., Schneider K.L., Waring M.E., DeBiasse M.A., Oleski J.L., Crawford S.L., Pagoto S.L. Reliable Change in Depression during Behavioral Weight Loss Treatment among Women with Major Depression, Obesity , 2013, volume 21 (3), pagg 211-218
Fabricatore A.N., Wadden T.A., Higginbotham A.J., Faulconbridge L.F., Nguyen A.M., Heymsfield S.B., Faith M.S. Intentional Weight Loss and Changes in Symptoms of Depression: a systematic review and meta-analysis, International Journal of Obesity, 2011, volume 35 (11), pagg 1363-1376
Jackson S.E., Steptoe A., Beeken R.J., Kivimaki M., Wardle J. Psychological Changes following Weight Loss in Overweight and Obese Adults: a prospective cohort study. PLoS ONE, 2014, volume 9 (8), disponibile in formato digitale.
Stunkard A., The “dieting depression” : incidence and clinical characteristics of untoward responses to weight reduction regimens, American Journal of Medicine ,1957 ,volume 23 (1), pagg 77–86
- “Il nostro grado di benessere non può che aumentare se riusciamo a migliorare la nostra condizione di vita”
Per alcuni aspetti questa affermazione risulta essere vera, ma per molti altri non la è. Intanto è bene chiarire che per “benessere soggettivo” si intende quella condizione di prevalenza di affetti positivi anziché negativi, caratterizzati da soddisfazione, senso di appagamento, tranquillità, gioia, e che risulta essere predeterminato da una serie di fattori in parte ambientali/contestuali ed in parte genetici e legati alla personalità. Il benessere soggettivo si attesta su un livello attorno al quale ci si colloca, e per quanto possano essere esperiti eventi di vita molto positivi (o negativi), il punto costante sarà sempre quello. In parole più semplici, esiste un riferimento fisso che costituisce la base del nostro stato d’animo e benessere quotidiano. Questa prospettiva viene chiamata set-point theory (teoria del set-point, ovvero del valore di riferimento) ed è stata originariamente proposta da Brickman e colleghi (1978) raffrontando il livello di benessere soggettivo riferito di ventidue persone che avevano vinto ad una lotteria con quello di altre ventinove che erano rimaste paralizzate dopo un incidente, concludendo che dopo un periodo di iniziale distanziamento dal set-point (in positivo per i vincitori, in negativo per le vittime di incidente) il benessere ritornava allo stesso livello di prima degli eventi. Questo ha permesso di ipotizzare che esistano fluttuazioni del benessere, ma che tendano a riallinearsi al livello di base in un tempo variabile. Questo livello di base, pertanto, viene considerato come stabile e poco influenzabile. Esso pare essere determinato da fattori di personalità (in grado di cambiare a seguito di interventi psicologici e psicoterapeutici) quali ad esempio alcuni tratti (ossia caratteristiche permanenti e non legate a condizioni transitorie) tra cui il nevroticismo ma anche la coscienziosità, l’affabilità e l’estroversione (DeNeve e Cooper, 1998) : secondo altri ricercatori, i fattori di personalità influiscono in misura variabile, dal 39% al 63%, sul grado di benessere soggettivo (Steel et al., 2008). Pare quindi acclarata l’influenza della personalità, ma quali possono essere altri fattori abitualmente associati all’idea di benessere nella società contemporanea? Naturalmente quelli legati alla condizione economica. Secondo la teoria set-point , le ricchezze non dovrebbero essere particolarmente influenti sul benessere (vedere sopra), mentre invece pare che riescano ad attutire l’incidenza di eventi negativi grazie alla funzione strumentale di riparazione del danno : ad esempio potersi pagare le cure per un intervento chirurgico senza doversi privare del sostentamento di base. Gli affetti negativi pertanto sono prevalenti in condizione di gravi carenze economiche. È anche interessante citare, però, che una volta raggiunto un livello di ricchezza sufficiente per la sopravvivenza e qualche lusso, ulteriori incrementi della capacità di spesa non influiscono così tanto sul benessere, dal momento che questa condizione raggiunta permette di evitare la negatività che emerge dalle privazioni e dall’incapacità di far fronte agli eventi (Cummins et al., 2009). Si potrebbe quindi riassumere affermando che il denaro risulti sì importante per la serenità quotidiana, ma solo finché non se ne possiede abbastanza per sostentarsi più che dignitosamente, aprendo parentesi di grandi dimensioni, ad esempio, sul grado di benessere in Italia per le nuove generazioni, dipendenti da fattori macroeconomici oltre che individuali.
IN BREVE : secondo alcune teorie, abbiamo un grado di benessere soggettivo stabile attorno al quale tendiamo ad allinearci sia dopo eventi positivi che negativi. Tale grado è determinato da fattori di personalità specifici, tra cui il nevroticismo (ossia la tendenza a percepire in maniera prevalentemente negativa gli eventi), che tende a mantenerlo basso. Altri fattori (estroversione, affabilità, coscienziosità) concorrono a mantenerlo invece elevato nel tempo. Quasi il 50% del benessere percepito è dipendente da tali fattori. Il denaro è implicato in maniera variabile : contribuisce ad un consistente elevamento del livello di benessere qualora venga ottenuto passando da una condizione di privazione ad una di piena autonomia economica, ma non risulta correlato positivamente ad incrementi ulteriori della capacità di spesa. Vincere la lotteria e rimanere paralizzati, come affermano i risultati di una ricerca, producono gli stessi effetti (compensati nel tempo) sul benessere soggettivo, proprio perché in grande parte dipendente da caratteristiche individuali.
Brickman, P., Coates, D., & Janoff-Bulman, R. Lottery winners and accident victims: is happiness relative?Journal of Personality and Social Psychology, 1978, volume 36, pagg 917-927.
Cummins, R. A., Woerner, J., Gibson, A., Weinberg, M., Collard, J., & Chester, M. Australian Unity Wellbeing Index: Report 21.0. The Wellbeing of Australians : Gambling, Chocolate and Swine Flu. Melbourne, Australian Centre on Quality of Life, School of Psychology, Deakin University, 2009.
DeNeve, K. M., & Cooper, H. The happy personality: a meta-analysis of 137 personality traits and subjective well-being. Psychological Bulletin, 1988, volume 124, pagg 197-229.
Steel, P., Schmidt, J., & Shultz, J. Refining the relationship between personality and subjective well-being. Psychological Bulletin, 2008, volume 134(1), pagg 138-161.