Questioni difficilmente digeribili : la formazione dello specializzando psicoterapeuta
Category : Articoli
Per ottenere i quindici minuti di notorietà di warholiana memoria ci sono molti modi diversi : compiere gesti eclatanti registrandoli in video e rendendoli pubblici, scrivere romanzi sul sadomasochismo amatoriale, farsi ospitare in un programma televisivo per raccontare la propria storia o aggiungere il proprio contributo culturale. In altre parole, molte strade possono portare ad uno stesso (per quanto effimero) risultato. Non è così per il giovane psicologo che decide di diventare psicoterapeuta, poiché per ottenere l’abilitazione alla psicoterapia c’è solo un modo : iscriversi e frequentare una scuola di formazione specifica riconosciuta (auspicabilmente) dal MIUR (Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca), scegliendo all’interno di un amplissimo ventaglio che certamente gli permetterà di trovarne una affine alle sue preferenze e alle sue suggestioni culturali. Ma la porta d’accesso è sempre una, e non si può diventare psicoterapeuti in altro modo (legale…)
Per un periodo di quattro o più anni il giovane psicologo pieno di speranze ed aspettative (“Diventerò come quello famoso che parla in televisione e suggerisce di abbracciare il dolore e andare per mano con l’ansia?”) e certo della sua collocabilità professionale (“Una volta diventato psicoterapeuta verrò chiamato per lavorare in una Comunità Terapeutica all’avanguardia in cui gli antipsicotici sono sostituiti da fiori di Bach”) in buona sostanza prolunga l’ultimo anno di università : lezioni frontali o di gruppo, tirocinio obbligatorio e non retribuito (probabilmente per evitare un accostamento improprio con gli specializzandi medici e tutto il loro approccio basato sul corpo e sul farmaco..), seminari di qualità e durata variabile e, a seconda dell’approccio della scuola, analisi personale a più sedute alla settimana e supervisione obbligatoria con i docenti.
Tutto ciò sarebbe accettato come passo ineludibile verso l’esercizio della psicoterapia, non fosse che quella che viene intesa come “formazione” è spesso utile solo ai formatori, anziché agli allievi, ed ha un costo a volte molto elevato che non viene recuperato nella maggior parte dei casi attraverso una collocazione professionale molto superiore a quella di uno psicologo simplex.
Prescindendo per un momento dalle scuole di psicoterapia, che sono molte e che non sono soltanto un caffè letterario in cui parlano esclusivamente i docenti, ma sono (credo per la maggioranza dei casi) dei veri e propri laboratori artigianali in cui si apprendono delle competenze trasversali (approcci alla diagnosi e alla cura diversi, focus su età della vita differenti rispetto a quelle preferenziali, tecniche di rapida implementazione…) e si impara a lavorare in gruppo, rimane un folto sottobosco di “corsi”, “seminari approfonditi”, “settimane residenziali di apprendimento intensivo” la cui utilità credo debba essere seriamente valutata dal giovane specializzando (come me!) con criteri meno “sognanti” e più pragmatici. Nella mia esperienza, ad oggi, posso dire che alcune domande ottengono una risposta positiva solo se le premesse sono davvero solide e resistenti ; per andare nello specifico, suggerisco (presumo anche ai non psicologi/medici specializzandi) di porsi queste domande quando si valuta la scelta di un percorso formativo, sia esso breve (come quello di un corso) o molto più lungo (come quello di una scuola di specializzazione) :
Premessa la non-gratuità e non obbligatorietà della formazione in oggetto d’esame
- Cosa può aggiungere questa scelta formativa alle mie conoscenze rispetto a ciò che posso fare adesso? Le acquisizioni che otterrò sono effettivamente spendibili nella mia pratica quotidiana?
- Chi sono i formatori? Qual è il loro background professionale e scientifico? Qual è la loro età? Valutare le pubblicazioni e i contributi recenti e passati per farsi un’idea degli interessi e dell’approccio culturale.
- In rapporto alla spesa netta, di quanto aumenterà il mio guadagno una volta concluso questo step della formazione? Se la spesa non viene ammortizzata in tempi congrui (un paio di anni al massimo), potete immaginare chi ci abbia guadagnato in questo caso..
- Esistono costi accessori che inizialmente non sono stati conteggiati? Di quanto fanno aumentare la spesa netta?
- Che fare nel caso non mi piacesse ciò che mi viene insegnato? È possibile ottenere un rimborso o quantomeno una cessazione del pagamento?
- Come viene valutato questo corso/questa scuola/questo workshop da chi ha la mia stessa età, stesso livello formativo e stessa collocazione professionale?
- Da quante parti si compone questa formazione a pagamento? La sua struttura è simile ad una piramide/matrioska/torta a più strati? È indispensabile arrivare al livello più alto? Cosa fare se ci si ferma prima?
- Eventualmente valutare quanti crediti ECM vengano erogati (se erogabili) o se sia previsto il rilascio di un attestato
Queste domande sono soltanto alcune tra quelle che sarebbe opportuno farsi nel valutare le proprie scelte formative. La risposta in molti casi sarà da cercare “all’interno”, poiché risulta difficile ottenerla dai diretti interessati formatori, che nel peggiore dei casi relativizzeranno l’importanza di aspetti quali “la stabilità economica”, “il giusto ritorno”, “l’utilità pratica” sostenendo che certe cose sono intrinsecamente utili anche se non si possano sottoporre agli stessi criteri di valutazione ai quali sottoporremmo qualcosa che ci accingiamo ad acquistare.
Caveat emptor, pertanto!
Cercherò quindi di riassumere il ragionamento fatto finora sulla formazione del giovane psicologo in pochi punti, probabilmente non esaustivi ma certamente di esempio :
- Valutare attentamente il rapporto tra costi (non soltanto economici ma anche in termini di tempo e fatica) e benefici (prevalentemente legati all’implementazione di quanto appreso nella pratica quotidiana clinica e al recupero di quanto investito). Se i costi concreti superano i benefici, sospendere la scelta e porsi altre domande (es. “Sto facendo un uso difensivo della cultura per evitare di affrontare il mercato del lavoro?”, “Mi sento forse incapace di operare se non scudato da mille attestati?”, “Sono affascinato da una qualche figura formativa carismatica e spero di emularla?”)
- Chi sono i formatori? Come hanno iniziato la loro attività formativa? Qual è lo scarto generazionale tra studenti e docenti? Cosa pensano di questa scelta formativa i miei pari che hanno già concluso il percorso?
- Una volta concluso questo percorso, avrò più possibilità di lavorare nell’ambito in cui mi sono formato oppure rimarrà appannaggio dei docenti? E inoltre : quali sono le alternative più utili/meno dispendiose per arrivare ad una stessa qualifica? È proprio obbligatorio fare questa formazione piuttosto che un’altra?
- Valutare SEMPRE che le acquisizioni siano spendibili nel mondo del lavoro attuale, dal momento che – fatte le dovute fortunate eccezioni- nel prossimo futuro ci saranno sempre meno assunzioni di psicologi/psicoterapeuti nel settore pubblico e il grande agone sarà costituito dalla libera professione, che non garantisce introiti costanti. Puntare meno all’enciclopedismo e più al sostentamento dei bisogni (anche perché la piramide di Maslow, che tutti certamente conosciamo, prevede che prima siano soddisfatti i bisogni essenziali e solo molto dopo quelli legati all’autodeterminazione e alle riflessioni metaculturali). Non sempre le formazioni più glamorous, con ospiti del jet-set e acqua Evian distribuita agli allievi risultano anche le più utili. Si può imparare tantissimo anche da altre figure professionali, ma questo certamente non rilascia nessun attestato.
In poche parole, credo sia il caso di esaminare con lucidità il mito della formazione a-tutti-i-costi perchè “fa curriculum” o perchè “il formatore è tanto simpatico/avvenente/ci fa ridere…”. Anche nel settore della psicologia e della psicoterapia, per un giovane o una giovane laureata, devono essere introdotte modalità di valutazione degli scenari possibili che comprendano anche aspetti tangibili dell’esistenza e non siano solo figlie di una generazione (massimamente rispettabile) di predecessori che sono nati,cresciuti e si sono collocati lavorativamente in una Italia diversa, non globalizzata e piena di opportunità, in cui la psicologia era ancora in fasce e qualunque idea poteva essere realizzata.
Ci troviamo oggi nell’era dell’evidence based, della liquidità delle condizioni di vita, del precariato come imprevista prevedibilità : cerchiamo quindi di arricchirci attraverso la formazione, in primo luogo dal punto di vista umano e professionale, ma senza dimenticare che ogni investimento, per essere fruttuoso, deve produrre una plusvalenza non soltanto umana.