Al paziente contemporaneo serve uno psicologo contemporaneo : una riflessione
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Mi capita frequentemente di pensare alla realtà culturale, oltre che lavorativa, all’interno della quale noi giovani psicologi (neolaureati, specializzandi, nuovi psicoterapeuti con meno di quarant’anni) ci troviamo. Da un lato, alcuni possiedono una impronta formativa improntata al fornire una soluzione rapida, efficace, possibilmente duratura e il meno dispendiosa possibile. Dall’altro, sono molti gli appartenenti ad una linea di pensiero (e ad una pratica operativa) molto tradizionale e derivante dal modello psicanalitico classico. Al centro si collocano scuole di pensiero talora eclettiche, talora influenzate da altre discipline. Al netto della scelta riguardo al proprio modello teorico e al modo di operare, mi si pone spesso la questione dell’utilità e della spendibilità pratica di tutto ciò che si è appreso nel corso di una lunga (lunghissima) formazione, in una prospettiva non troppo sindacalizzata ma certamente scevra dall’influenza del proselitismo ideologico.
Penso frequentemente al fatto che ancora troppo spesso esistano alcune linee di pensiero che non vedono il paziente (sia esso un bambino, un adulto, un anziano o perfino una organizzazione e una azienda) come cardine sul quale imperniare tutto l’intervento, che deve dimostrarsi efficace ed effettivamente basato sulle sue esigenze, ma anzi continuino a considerarlo come recettore del sapere e delle cure.
Intravedo inoltre un silenzioso e frustrante stridore generazionale tra professionisti, che non considero necessariamente come un viraggio iconoclasta, ma che senza dubbio pone in evidenza la questione del passato e del presente.
Tutta questa introduzione mi è stata necessaria per poter giungere confortevolmente al nodo centrale di questo pensiero interrogativo : chi sono gli psicologi del XXI secolo? Quanto sono aderenti alla realtà sociale e culturale contemporanea? Esiste uno spazio per loro di legittimazione e ascolto? E ancora, cosa possiamo fare per rispondere al meglio ai nuovi bisogni e alle nuove richieste di aiuto, che non hanno più la forma dell’isteria, della psiconevrosi, della seduzione paterna fantasmatica?
Vorrei tentare perciò di dare una risposta personale, in base al mio pensare e al mio sentire, e cercando di coniugare i dati di realtà con una prospettiva aerea che dia una visione d’insieme.
Anzitutto, fin dall’inizio del mio percorso formativo, ho immediatamente notato che la stratificazione delle nozioni è stata considerata come indispensabile ed inevitabile : senza la citazione non si può avere diritto di parola, senza la bibliografia estesa non si può scrivere, senza prima aver studiato la teoria non si può esercitare la pratica. Conscio del fatto che l’iter universitario, dall’immatricolazione alla laurea, preveda il superamento di esami che vanno a verificare quanto appreso, non ho mai opposto resistenza al fatto che molte delle tematiche che le facoltà di Psicologia in Italia propongano potrebbero essere rivedute e ristrutturate alla luce della reale utilità per uno psicologo che dovrà poi rispondere alle reali esigenze di un paziente (o committente). Le università italiane (e mi riferisco esclusivamente alle facoltà di Psicologia) laureano annualmente un numero di psicologi che è completamente sproporzionato rispetto alla capacità del mercato di assorbirli : basti guardare le statistiche presenti ovunque su internet per accorgersene. Il punto critico in questo caso è che non soltanto tutti questi nuovi dottori non sono integrabili dal punto di vista lavorativo, ma che se sono stati formati da facoltà in cui i programmi didattici sono basati più sulle esigenze dei professori (siano esse personali, ideologiche, inerenti allo stile di insegnamento o quant’altro) che su quelli dei futuri professionisti, il corto-circuito è presto fatto.
Potrei spendermi a lungo sulla qualità della didattica in base alla mia esperienza, ma credo ne verrebbe fuori un tedioso report sulle idiosincrasie che nulla aggiungerebbe alla questione e farebbe perdere la prospettiva che è necessaria per “sorvolare” il panorama che circonda lo psicologo dell’oggi.
Una volta laureato e abilitato alla professione, e concluso l’obbligatorio tirocinio della durata di un anno (molto spesso unica occasione per mettere alla prova l’utilità di quanto appreso e di entrare in contatto con un’utenza reale, incarnata, personificata) che non viene retribuito, il neo dottore può iniziare la ricerca di un impiego, che si rivela estremamente arduo qualora avesse la “presunzione” di operare nell’ambito per cui ha studiato. C’è chi ripiega su un lavoro non attinente, c’è chi si prostra per ottenere uno stage e c’è anche chi, per dare un senso alla sua frustrazione, decide di iniziare un percorso personale, naturalmente con un affermato professionista nato, cresciuto e formatosi in un contesto sociale e culturale profondamente diverso. Se però si ha l’ambizione di specializzarsi, o di proseguire la formazione con master e corsi, è necessario mettere in conto una “moratoria” alla propria autorealizzazione di almeno un paio di anni, ed un esborso di risorse (economiche e in termini di tempo) non indifferente. Ironicamente (o forse no), si nota un isomorfismo tra l’università e la formazione post-universitaria, che a volte rischia di riprendere il circolo vizioso costituito da sganciamento rispetto alla realtà occupazionale, marcata asimmetria tra docente e discente e inesistente o minimo potere contrattuale in merito alla formazione. Dal momento che la stragrande maggioranza delle università sono pubbliche e la quasi totalità degli attori implicati nella formazione post-lauream sono privati, si assiste alla comparsa di un elemento che prima non era indispensabile : il marketing.
Con questo termine, che accende molti dibattiti deontologici all’interno del nostro settore professionale, intendo quell’insieme di strategie dirette o indirette, basate sull’influenzamento da parte di figure carismatiche o suffragate da dati e tabelle, che permette di proporre il proprio prodotto sul mercato e di ritagliarsi una fetta di utenza allettata dall’idea di pagare per ottenere un servizio (o una formazione) migliore rispetto alla concorrenza. Da ciò, il fiorire di master, corsi brevi, corsi lunghi, corsi né brevi né lunghi e ovviamente scuole di specializzazione, di cui ho già accennato in alcuni altri articoli. Ci si muove quindi in uno scenario in cui è indispensabile ricordare sia gli aspetti “macro” (es. la percentuale di psicologi che lavora a un anno dalla laurea, la retribuzione media dopo 5 anni, i settori con le maggiori possibilità di impiego..) che gli aspetti “micro” (es. quanto mi è utile questo specifico momento formativo per arrivare là dove mi sono proposto di arrivare? Quanto tempo mi sarà necessario per recuperare le risorse investite? ), senza sproporzionati pessimismi ma con forte aggancio alla realtà.
Ed una volta concluso anche il momento di formazione post-lauream (con il suo corollario di gratificazioni, frustrazioni e abilitazioni), sarebbe utile chiedersi da chi si è stati formati, e probabilmente sarà possibile intravedere un trait d’union tra mondo dell’università e mondo della formazione, Cosa si è imparato? Quanto si è potuto spendere fin da subito? Quali sono le nostre condizioni lavorative adesso?
Fin qui ho parlato della scena alle spalle dello psicologo (psicoterapeuta), ma preferisco passare ora al vero attore (e mai spettatore) della scena : il paziente.
Mi rendo conto che sarebbe utile avere maggiore dimestichezza con gli altri ambiti della psicologia che non siano la clinica, così da poter adattare questa riflessione a più contesti, ma dato che allo stato attuale delle mie conoscenze non mi è possibile farlo mi limiterò solo a ciò che conosco meglio.
Come ho già detto, il paziente di oggi non è più quello del 1901, ma neppure quello del ’52 né del ’91, e presenta problematiche spesso indistricabilmente connesse con la realtà sociale (ad es. stato di disoccupazione, dipendenze da sostanze o comportamenti di abuso, disturbi nuovi e continuamente mutevoli ancor prima di poter essere classificati) e con la cultura di riferimento. Se nel passato una figlia si rivolgeva ad uno psicanalista per avere chiarimenti e aiuto per un tormentoso dubbio riguardo alla paralisi del suo braccio dopo aver toccato il bavero del paltò di un giovane ufficiale, oggi una giovane può aver bisogno di capire come mai non si sente accettata dalle amiche rifiutandosi di assumere delle anfetamine per perdere una decina di chilogrammi prima di partecipare a una festa in piscina. Continuare a formare terapeuti che non vanno al di là dell’eredità storica e culturale mi sembra deleterio tanto quanto formarne una generazione che garantisce remissioni sintomatiche istantanee basandosi su pratiche pseudo-mediche la cui validità scientifica non è provata od una che interpreti ogni malessere somatico come puramente psichico.
Il paziente contemporaneo a mio avviso ha bisogno di un terapeuta altrettanto contemporaneo, e porto avanti la mia linea di pensiero su alcuni assunti che ritengo fondamentali :
- Il paziente ha diritto a chiarimenti e spiegazioni qualora li richiedesse, ivi incluse quelle inerenti al “come funziona il processo terapeutico”, al “perché funziona”, al “quanto dura”e al “quanto mi costa” , senza trovare di fronte un silenzio ieratico o una omissione surrettizia di informazioni
- Ha inoltre specificità e bisogni che si devono conciliare con l’esigenza di mantenere i punti fissi necessari per il suo benessere all’interno di una cornice terapeutica, riferendomi alla necessità di essere costanti nel tempo, di trovare reperibile il terapeuta nel suo orario di reperibilità, ma anche di poter spostare un appuntamento qualora sopraggiunga un imprevisto
- Deve poter ricevere un aiuto multidisciplinare qualora ne avesse bisogno, non soltanto di tipo psichiatrico ma anche socioassistenziale, in un’ottica di lavoro di rete interdipendente
- Il terapeuta deve altresì essere aggiornato costantemente sia sulle evoluzioni nel campo della ricerca scientifica e medica che sui mutamenti negli usi e nei costumi, e dovrebbe sempre provare a progettare CON il paziente l’intervento, anziché progettarlo PER esso
Se quindi consideriamo fondamentale un legame stretto tra formazione, professionalità e utenza di riferimento, credo sia altrettanto necessario che l’intero nostro settore compia un atto di riflessione sempre legato al contesto lavorativo e alle nuove generazioni di psicologi, a partire da :
- La necessità di compiere scelte formative massimamente improntate alla spendibilità dei contenuti proposti
- Il bisogno di dialogo con gli attori sociali coinvolti da progettazione di interventi : “cosa vi è davvero utile” piuttosto che “vi dimostro che qualcosa potrebbe esservi utile”, arginando per un momento l’avanzata di quella tattica di sopravvivenza che è costituita dal creare bisogni fittizi a cui poter dare pronta risposta
- Uno sguardo alle evidenze scientifiche, anche e soprattutto qualora dimostrino l’inefficacia delle pratiche, per poterle mutare e rendere più utili
- L’inevitabile avvicendamento generazionale, che attualmente vede una generazione di professionisti “seniores” che intercetta la quasi totalità dell’utenza talora non solo per comprovata abilità ed esperienza, ma soprattutto per ricopertura di ruoli professionali di alto livello, ottenuti in un periodo di economia più espansiva e di assunzione nel settore pubblico, che occupa anche il settore formativo, formando professionisti che poco realisticamente spenderanno la propria competenza in tempi brevi o con gli stessi ritorni economici o possibilità di progredire a livello lavorativo
- Uno sfoltimento bonificante del “sottobosco psicologico” costituito da figure non giuridicamente riconosciute che praticano interventi di pertinenza strettamente psicoterapeutica inquadrandoli all’interno di una cornice sfumata e brumosa
- Una rivalutazione del rapporto medico-psicologo con una chiara definizione dei limiti così come delle aree di intersezione, con particolare riferimento alla psichiatria, che dovrebbe interagire attivamente con lo psicoterapeuta per il benessere del paziente più che per rimarcare l’asimmetria (percepita) nell’importanza del proprio lavoro rispetto a quello dello psicologo.
Mi permetto di chiudere questa lunga esposizione non con un auspicio alla riflessione e all’autocritica, poiché sarebbe facile liquidare i problemi e le questioni esposte con cinque minuti di delicata autoflagellazione, ma con un messaggio che possa essere risonante anche per chi psicologo non è : non perdiamo mai di vista l’insieme oltre al particolare, e anteponiamo la capacità di giudizio alla seduzione delle promesse, delle speranze, dei sogni e delle prospettive di gloria previo pagamento. La psicologia ha bisogno di legittimazione e di riconoscimento sociale, ma non li si può ottenere utilizzando gli stessi strumenti usati finora né affidandosi agli stessi attori che calcano il palco come se il tempo non passasse mai, inconsapevoli del fatto che a pochi passi dal teatro ha appena aperto un cinema multisala.