Il rapporto col nostro corpo : come lo percepiamo, come vogliamo che sia (parte II)

Il rapporto col nostro corpo : come lo percepiamo, come vogliamo che sia (parte II)

 

Una buona capacità di prendersi cura del proprio corpo è condivisibilmente indicativa di un certo equilibrio psicologico : controllare il proprio stato di salute con regolarità, seguire le terapie indicate in caso di malessere o malattia, praticare attività fisica costante e mangiare in modo vario, non dimenticando di concedersi una buona quota di frivolezza, accontentandosi anche nei bisogni più superficiali (prodotti cosmetici o la cura nell’abbigliamento, ad esempio). Questa capacità di cura è accompagnata da una valutazione prevalentemente positiva del proprio aspetto, ma anche da una piena consapevolezza e accettazione dei propri piccoli difetti e imperfezioni, che possono eventualmente essere corretti, ma la cui eliminazione non costituisce mai il centro focale di tutto un intero momento di vita. Mi sembra indispensabile precisare, a questo punto, che mi riferisco ad un ipotetico soggetto sano e privo di concreti motivi che possano spingerlo a sentirsi in forte disagio con sé stesso (ad esempio a seguito di un incidente, o con deformità presenti fin dalla nascita). In questo caso credo che sia comprensibile che interi momenti della vita vengano trascorsi nel tentativo di riparare il danno o ridurne la portata e l’evidenza sul corpo, per raggiungere un grado di accettazione sociale maggiore e ripristinare un poco di quella autostima di cui abbiamo parlato in precedenza.

 

E le persone di aspetto normale che decidono di “rifarsi tutto”, che persone sono? 

 

La storia della chirurgia plastica ed estetica è molto interessante : ha iniziato ad affermarsi in Europa e negli Stati Uniti nel XIX secolo, pur avendo avuto rappresentanti illustri già nei secoli precedenti. Come ogni invenzione rivoluzionaria, è partita con uno scopo nobile ma si è recentemente forse allontanata dalla sua missione, passando da nobile arte del ricostruire e riparare il danno a strumento di pacificazione per lo schema corporeo delle adolescenti con poco seno o degli uomini stempiati.

Ma, in qualità di psicologo, sarei poco obiettivo a definire meramente pacificanti le finalità di un intervento di chirurgia estetica. Dobbiamo fare un passo oltre e chiederci quale sia il senso di una scelta, per poterne avere piena consapevolezza. E se necessario, andare anche a esplorare quelle situazioni in cui le cose paiono essere sfuggite di mano : è il caso della dismorfofobia.

Con questo termine, ora sostituito da quello di “disturbo da dismorfismo corporeo”, ci si riferisce a una condizione psicopatologica in cui sussistono per un lungo periodo delle forti preoccupazioni riguardo a specifiche zone del corpo, che vengono viste come imperfette, sgradevoli, intollerabilmente ripugnanti, difettose…

Il dismorfofobico (o la dismorfofobica) cerca di porre rimedio autonomamente al difetto percepito, attraverso un camuffamento, o evitando di esporre la parte, o cercando di compensare attraverso la valorizzazione di altri distretti corporei (ad esempio una donna con un seno piatto che inizia a truccarsi fin troppo vistosamente per evitare che l’attenzione scenda sul suo décolleté) o rivolgendosi ad un chirurgo per cercare una soluzione radicale e definitiva al suo difetto.

In probabile disaccordo con i criteri diagnostici, credo che il difetto di cui si lamentano i pazienti con dismorfismo corporeo sia visibile e percepibile, seppur in modo più o meno evidente. Comunicare ad una persona preoccupata per il suo difetto (per i suoi difetti) che non esistono e sono solo il prodotto di una mente troppo attiva non fa altro che colpevolizzare la persona e farla sentire alienata…e difettosa. Preferisco pertanto valutare come il difetto sia in grado di influenzare la qualità della vita, specialmente a livello di relazioni sociali e sentimentali. È indispensabile capire, nel disturbo da dismorfismo corporeo, quando sia insorto il sintomo disagevole e collocarlo nell’arco di vita del paziente. Inoltre, l’attribuzione di senso al disagio può costituire tutto il cardine di un intervento psicologico, permettendo alla persona di valutare in autonomia la possibilità o meno di sottoporsi ad interventi chirurgici.

 

Facciamo un passo indietro : come si arriva all’idea e alla possibilità di “rifarsi tutto”?

 

Come abbiamo in precedenza già visto, l’aspetto fisico costituisce solo una sfaccettatura del più ampio concetto di autostima. Se esistono altre qualità positive riconosciute e salienti per la persona (a livello di personalità ma anche fisico), è meno probabile che un difetto fisico (congenito o insorto nel tempo) possa generare una profonda crepa nella stima di sé. La questione attuale è legata al contesto sociale mutato, in larga parte per influenze massmediatiche, a loro volta prodotte da chi ottiene un guadagno attraverso la vendita di beni o servizi che riguardano il più ampio settore delle “apparenze” (concedetemi il termine) : parliamo quindi di abbigliamento ma anche di prodotti cosmetici ed integratori sportivi, così come di shampoo, di costumi da bagno, di scarpe..

Nel contesto sociale contemporaneo, che riceve influenze costanti e inarrestabili dalla realtà quotidiana globalizzata, l’aspetto fisico e la sua desiderabilità sono rimarcate in ogni momento. Tanto più si aderisce al modello proposto, tanto più l’accettazione sociale è garantita.

Esistono momenti peculiari della vita in cui i cambiamenti dello schema corporeo (che ognuno di noi possiede e che costituisce la “mappa” di come ci percepiamo) sono inevitabili e critici : basti pensare all’adolescenza così come all’avvicinamento verso la mezza età.

In queste circostanze il corpo cambia, sia che lo desideriamo o meno. L’equilibrio costruito fino a quel momento si incrina, e tocca trovarne uno nuovo, più adatto alle nuove condizioni. Se la nostra autostima ha sviluppato una linea di frattura importante in merito all’aspetto fisico, queste sono occasioni in cui è più probabile che si verifichi un cedimento.

Questo cedimento può essere “riparato” attraverso un progressivo avvicinamento (o riavvicinamento) ai modelli di fisicità proposti dall’ambiente che ci circonda.

 

…o perlomeno, questa pare essere la soluzione più praticabile…

 

 …se solo non fosse che questa soluzione non considera le peculiarità della persona e le sue caratteristiche. Sarà davvero indispensabile un corpo d’acciaio a cinquantacinque anni? È più facile rispondere “no” se la propria autostima non è integralmente basata sul corpo e sul suo aspetto, nella piena consapevolezza delle influenze sociali che vorrebbero costringere le persone di mezza età (così come gli adolescenti, i giovani adulti, gli adulti e finanche gli anziani) a sentirsi in colpa per non avere un corpo X .

Se, per un momento, decidiamo invece che il difetto fisico è proprio ciò che ci impedisce di viaggiare, lavorare, studiare, leggere, preparare un caffé ed effettuare una videochiamata, la soluzione di cui sopra è pienamente accessibile : serve un rimodellamento, una alterazione, una manipolazione del tangibile per avere un positivo effetto sull’intangibile (interiorità).

Le sostanziali differenze tra chi ha tendenze dismorfofobiche e chi è semplicemente scontento del proprio aspetto ma potrebbe anche fare a meno di intervenirvi sono molteplici, e sicuramente riassunte da ogni manuale diagnostico. Vorrei però semplificare alcuni aspetti per le nostre finalità.

  • Nel disturbo da dismorfismo corporeo vi è una preoccupazione costante e quotidiana per il difetto
  • Vengono messi in atto rituali ossessivi (dal momento che questo disturbo condivide molte caratteristiche con quello ossessivo compulsivo) di controllo e verifica, ad esempio fotografandosi a intervalli regolari e sotto diverse condizioni di luce
  • Una grande parte del proprio tempo è occupata nella ricerca compulsiva di soluzioni al difetto, siano esse cosmetiche che chirurgiche
  • Le relazioni sociali, le performance lavorative, il benessere e la qualità della vita sono tutti aspetti fortemente compromessi dal difetto
  • Nel caso in cui il difetto venga eliminato per vie chirurgiche o cosmetiche, è frequentissimo lo spostamento dell’attenzione su altre parti del corpo “difettose” (facendo emergere quanto possa risultare paradossalmente utile l’imperfezione fisica : occupa il nostro tempo, consuma le nostre risorse, ci caratterizza a livello identitario)
  • La gestione postoperatoria di un paziente con disturbo da dismorfismo corporeo può risultare molto complicata : la chirurgia può essere stata proposta come “soluzione definitiva” ma il paziente riscontra difetti secondari o evidenzia una cattiva tecnica operatoria. In questi casi il chirurgo competente si trova a dover affrontare un paziente che può virare verso una depressione grave mentre quello meno competente che ha causato un peggioramento del difetto per propri limiti tecnici tenderà a invalidare completamente le osservazioni critiche che il paziente, seppur disforfofobico, gli solleva.
  • Il disturbo da dismorfismo corporeo e gli altri disturbi che hanno caratteristiche prevalentemente ossessivo complusive (come ad esempio alcuni disturbi alimentari), possono risultare molto resistenti alle psicoterapie e alle terapie farmacologiche, presentando un andamento altalenante nel corso della vita, riemergendo nei momenti di forte stress o confronto sociale, oppure rimanendo cronici ma in forma attenuata.
  • B. I disturbi con base ossessivo compulsiva possono riguardare l’aspetto fisico e la corporeità in molti modi diversi : bigoressia (la convinzione di non essere mai muscolosi a sufficienza), ortoressia (la necessità di dover mangiare soltanto alimenti biologici o non raffinati, rifiutando qualunque altro cibo la cui provenienza non è tracciabile), tanorexia (la convinzione di non essere abbronzati a sufficienza) sono soltanto alcune delle iterazioni recenti.

 

Cosa si può fare per tutto questo? 

 

Questa domanda è anche il nostro interrogativo conclusivo.

Se ormai ci siamo allontanati completamente da un rapporto strumentale con il corpo e non possiamo più considerare le influenze sociali e massmediatiche come “minimali” e “secondarie”, ci è necessario rivalutare il rapporto con il nostro aspetto fisico in modo equilibrato, anche a fronte delle pressioni esterne che vorrebbero imporci un modello ideale. È fondamentale rimanere consapevoli della forza centripeta che esercitano questi modelli, e compiere una scelta che può anche essere in direzione della libertà di modificarsi e conformarsi. Mi sentirei di aggiungere pochi altri punti :

  • Ad oggi e nel contesto clinico, una valutazione dell’autostima non può prescindere dall’esplorazione dei vissuti inerenti al proprio aspetto fisico, ed il rapporto tra disagio estetico e ambiente circostante deve essere considerato con la massima attenzione
  • Potrebbe essere utile diffondere strumenti come la valutazione psicologica preoperatoria (di cui ho parlato in precedenza) per consentire una rapida identificazione delle condizioni psicopatologiche che influenzano negativamente la prognosi di una operazione estetica
  • Il ruolo del corpo e del confronto tra pari dovrebbe essere rivalutato quando ci si confronta con una utenza adolescente, evitando atteggiamenti “normalizzanti” che possono acutizzare la sensazione di essere soli ed incompresi
  • Gli interventi di sostegno alla genitorialità o di parent training dovrebbero comprendere anche una parte sull’accettazione del proprio corpo e sulla valorizzazione dei propri pregi già fin dalla prima infanzia.

Concludo con una citazione da un bellissimo film di Almodóvar, “Tutto su mia madre”, in cui il transessuale Agrado parla del rapporto con il suo corpo, dicendo al pubblico :

“ Labbra, fronte, zigomi, fianchi e culo. Un litro (di silicone) sta sulle centomila, perciò fate voi il conto perché io l’ho già perso. Limatura della mandibola, settantacinquemila, depilazione definitiva col laser, perché le donne vengono dalle scimmie tanto quanto gli uomini, sessantamila a seduta, dipende da quanta barba una ha, normalmente da una a quattro sedute. Però se balli il flamenco ce ne vogliono di più, è chiaro. Bene, quello che stavo dicendo è che costa molto essere autentica, signora mia. E in questa cosa non si deve essere tirchi, perché una è più autentica, quanto più somiglia all’idea che ha sognato di se stessa

 

 


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