COVID-19 e sopravvivenza psicologica
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Preferisco abitualmente occuparmi di questioni inerenti alla salute mentale in modo ironico ma consapevole, con l’intento di riuscire a rendere più semplici e fruibili i contenuti a quante più persone possibile, senza distinzioni. In questa occasione però credo sia il caso di mettere da parte l’ironia e di fare il punto della situazione sui risvolti psico(pato)logici della attuale pandemia di Coronavirus e del confinamento protratto nelle proprie case.
Ritengo che un grosso elemento distintivo tra le persone che riescono a dare un senso agli eventi e andare avanti e quelle che purtroppo non ce la fanno sia la capacità di sfruttare la situazione presente per trarne un insegnamento, un invito alla ricerca di significato, una possibilità evolutiva. Questo è anche uno degli aspetti legati al concetto di resilienza psichica , uno dei più citati e studiati dell’ultimo decennio.
Vorrei considerare insieme a voi alcuni punti rispetto alla pandemia e al confinamento domestico, nel tentativo di creare prospettiva rispetto ad una quotidianità che pare infinita nella sua ripetizione.
Ci sentiamo vulnerabili

“La più grande debolezza
è il sacro terrore di sembrare deboli”
Jacques Bénigne Bossuet
Da quello che sembrava un virus che mieteva vittime in una regione isolata della Cina, si è passato rapidamente ad uno stato di rapido contagio diffuso, prima di essere dichiarato responsabile di una pandemia globale. Se all’inizio – anche per causa di una certa miopia politica – forse si è potuto sottovalutare l’impatto , nel giro di qualche settimana ci si è ritrovati chiusi in casa, sospettosi e diffidenti del prossimo, intenti a disinfettare qualunque superficie nei modi più vari.
Ci si è resi conto che il virus poteva albergare anche dentro di noi e che saremmo potuti finire in una terapia intensiva bisognosi di ossigeno e incapacitati nel respiro. Tutto a un tratto gli equilibri della propria vita si sono sbilanciati : abbiamo ripreso contatto con la nostra mortalità.
In questa parte del mondo in cui viviamo si fa un grande sforzo per stare lontani il più possibile dall’idea della finitezza, dell’impotenza, del dolore e del caso (inteso come evento imprevisto del tutto al di fuori del nostro controllo). Si esalta la nascita e ci si gira dall’altra parte se si pensa alla vecchiaia, alla fragilità, al termine dell’esistenza. Abbiamo l’idea che si possa avere controllo, e che mai a noi capiterà di essere infettati da un virus. Alla vicina centenaria sì, ma non proprio a noi che religiosamente andiamo in palestra e abbiamo ancora tanti progetti per la vita.
Ebbene penso che questa pandemia ci abbia riportato in modo brutale e repentino verso tutto ciò che non vogliamo vedere ma esiste e deve essere accettato, proprio per dare valore alla vita. L’idea che essa stessa possa concludersi anzitempo può aiutarci a riconsiderare quanto fatto fino ad ora, e modificare la traiettoria verso orizzonti più consoni alla nostra natura. L’idea che il nostro corpo possa ammalarsi senza segni premonitori e non tornare più come era prima è una occasione per rientrare consapevolmente nella realtà del corpo, accettando il suo funzionamento tanto quanto la patologia. In altre parole, non resistere alla nostra vulnerabilità e mortalità può aiutarci a vivere meglio, poiché ogni fuga da ciò che è spiacevole (o viene ritenuto tale) comporta un grande dispendio di energie. È davvero così terribile poter pensare che tutto possa finire un giorno, o nel pensarvi cogliamo anche un senso di liberazione rispetto ai tentativi faticosi di pensare che il tempo a nostra dispozione sarà infinito e costituito esattamente da ciò che pensiamo ci sia dovuto?
Ci sentiamo intrappolati

“L’unico modo di fuggire alla condizione di prigioniero
è capire com’è fatta la prigione”
Primo Levi
Le misure di confinamento domestico alle quali siamo sottoposti ci hanno riportato alla dimensione della privatezza, della familiarità. La casa diventa lo scenario in cui giorno dopo giorno si ripete la vita, in apparenza sempre uguale, così lontana dal mondo esterno. I nuclei familiari si ricompongono, le coppie convivono, le persone sole comprovano la loro solitudine. Ho l’idea che le situazioni in cui le persone debbano fermarsi, per scelta o necessità, altro non siano che una efficace lente d’ingrandimento sulle questioni proprie.
Molti arrangiamenti umani, a mio parere, si fondano sulla giusta distanza per funzionare. Quando questa viene a mancare, emergono aspetti più primitivi inerenti alla vicinanza, che potrebbero essere anche letti attraverso le teorie dell’attaccamento primario, gli aspetti pulsionali, le componenti relazionali. Questo è ciò da cui si potrà partire una volta conclusa l’emergenza, per dare senso a quanto accaduto alle persone e far sì che il terrore, il fastidio, la paura di impazzire possano essere riconsiderati e integrati.
Vivere vicini, in dipendenza l’uno dall’altro, sperimentare senza nessun filtro gli aspetti detestabili del proprio marito/moglie, figli, o anche di sé stessi in questa occasione risulta essere una occasione di potenziale crescita e revisione consapevole. Una volta privati degli strumenti difensivi, ci ritroviamo di fronte al conflitto e alle conseguenze delle scelte : non possiamo più fare shopping per dimenticare la depressione, né preallertare l’amante della imminente visita. I figli richiedono attenzioni e intrattenimento, sembrano non capire la situazione e talora ci suscitano delle risposte talmente espulsive e aggressive che ci chiediamo se in fondo siamo davvero buoni genitori. La solitudine subìta ci fa pensare se forse è proprio vero che stiamo bene da soli, ora che le palestre sono chiuse e non possiamo fare il consueto utilizzo antidepressivo di amici e conoscenti.
Ci sentiamo vulnerabili e ci sembra di essere in trappola. Siamo stati riportati dalle circostanze in quello che è per definizione uno scenario evolutivo : l’invito a guardarsi dentro per potersi domandare se davvero avremmo voluto vivere così, se avessimo saputo che la vita sarebbe potuta finire domani. Questo è intrinsecamente (psico)terapeutico, ma richiede un livello di lettura più profondo, che a volte è difficile riuscire ad avere nell’emergenza e nel disastro.
Sfruttiamo il silenzio, senza spaventarci di ciò che potrebbe essere udito.
Ci sentiamo grati

“Nessuno è tanto capace di gratitudine
quanto uno che è emerso dal regno della notte”
Elie Wiesel
In un clima così denso di vulnerabilità e di paura, ci possiamo rendere conto di quanto gli altri silenziosi, i personaggi quotidiani di cui spesso ci dimentichiamo, facciano per noi. La prospettiva diventa meno egocentrica, nella migliore delle ipotesi. Il terreno diventa fertile e ideale per sviluppare la compassione, nel senso di cum-patior , del soffrire (patio) insieme (cum). Pensiamo ai medici, agli infermieri, agli operatori delle emergenze che in questo momento, per tentare di salvare l’esistenza altrui o evitare che tutto irreversibilmente decada.
Ci si preoccupa per chi è più fragile, più esposto, più emarginato.
Ma tutto questo altro non è che un prodotto della situazione di emergenza e di confinamento. Il disastro è democratico e niente affatto classista, malgrado qualcuno tenti di negare la propria mortalità allestendo in casa propria un piccolo e personale reparto di terapia intensiva. Riportiamo l’attenzione verso chi, nello sfondo, permette alla vita di andare avanti ogni giorno e perlopiù rimane distante dalla nostra consapevolezza. Anche questo è un elemento evolutivo al quale possiamo accedere sfruttando il silenzio e il confinamento di questi momenti. Ringraziare per il semplice fatto di esserci e di prendersi cura della collettività : dall’interiore all’universale non esiste una dimensione in cui non sia possibile trovare qualche elemento che dia senso a quanto stiamo vivendo, per farne risorsa e possibilità.
La fine della fine
Se per “fine” intendiamo quel momento specifico in cui da una condizione si passa ad un’altra, allora possiamo essere certi che ci sarà la fine di ciò che pare sembrarci “la fine” (della vita per come l’abbiamo pensata fino a ora, dell’emergenza, dell’esposizione senza censure alla fragilità). In tempi recenti, direi dal dopoguerra ad oggi, non abbiamo avuto molte occasioni di confrontarci con il limite e con la mortalità. Anche i disastri naturali recenti, le guerre, i conflitti sono stati vissuti con un senso di distanza, non appartenenza, distacco protettivo. In un momento come questo, in cui tutti siamo indistintamente vulnerabili, abbiamo la possibilità di ripensarci (privatamente e come appartenenti al genere umano), ma ancor di più di prendere contatto con noi stessi e con ciò che vorremmo essere e non siamo. Per investire sulla vita, è necessario comprenderne la brevità. E se questo può sembrare cupo o pessimistico, chiediamoci quanta gioia ci abbia portato fino ad oggi pensare all’esistenza come al superamento quotidiano di fastidi e incombenze, protési verso un futuro che mai arriva e che è l’unica sede del sollievo e del riconoscimento. Tutto ciò che abbiamo è adesso, nel bene e nel male.